Niobe, punita per aver osato proclamare la sua felicità di madre, appagata dai suoi figli, in un mondo dove solo gli dèi, e non i mortali, possono rivendicare la vera felicità. La sua è una storia di amore, vanità, invidia, perdita e resistenza. La osserviamo sull’orlo del baratro, immersa nel suo dolore, una creatura sospesa tra il divino e l’umano. La sua immagine si trasforma: da ribelle a mater dolorosa, da regina del lutto a figura decorativa nelle fontane, insieme ai suoi figli. Ho ammirato la sua leggerezza e la sua durezza, la sua insopprimibile voglia di vivere, nonostante tutto.

Un giorno, per caso, mi trovo agli Uffizi e vedo la sala dei Niobidi: i figli di Niobe colti nell’attimo della morte, trafitti dalle frecce di Apollo e Artemide, frecce che non concedono scampo. Per i Greci, la bellezza era l’ultimo baluardo contro il dolore e la morte, ineluttabili sì, ma qualcosa poteva sopravvivere oltre la vita fugace: la bellezza e il ricordo. Mentre qualcuno scatta una foto, poco distante un ragazzo fa uno schizzo.

“Benvenuti nel mio gelido inverno. Vengo da una favola oscura: tutti i miei figli sono stati uccisi. Ero felice, e questo offuscava gli dèi. Dovevo essere un monito: non sfidate i limiti. Poi sono diventata una star: da ammirare, da compiangere”.

Sei davvero strana, Niobe. Qualcuno dice che sei stata sciocca, altri ti accusano di vanità, ma più di tutto di superbia. Le cose umane appartengono agli umani. I mortali non possono essere felici per sempre, solo gli dèi sono eternamente beati. I passi riecheggiano nel palazzo vuoto, evocando vite lontane. Ormai, sei più madre che donna, tuo malgrado divenuta simbolo di dolore, un dolore che trasformerai in capolavoro. L’oblio non ti toccherà: sarai una pietra che piange, a testimoniare la fragilità della nostra carne e della nostra esistenza.